CHE ASPETTATIVE SCOLASTICHE HO SU MIO FIGLIO?

    CHE ASPETTATIVE SCOLASTICHE HO SU MIO FIGLIO?

    In questi giorni mi è capitato tra le mani un foglio contenente un estratto dal libro “Le piccole virtù “di Natalia Ginzburg (Natalia Levi, Palermo 1916 - Roma 1991) di origine ebraica e figlia del noto scienziato triestino Giuseppe Levi.

    Il contenuto risale al 1960, ben 60 anni fa, ma mai come in questo periodo il messaggio che vi riporto è di straordinaria attualità per tutti quei genitori che hanno assistito (e forse in alcuni casi addirittura sostituito) i propri figli nel loro dovere scolastico e hanno esperito emozioni di vario tipo stando al loro fianco come se fossero in classe.

    Le parole della Ginzburg risuonano come un avvertimento, forse quasi un rimprovero sul quale riflettere bene se vogliamo riprendere in mano la situazione educativa e formativa dei nostri figli e far si che ad ognuno siano date le responsabilità che gli spettano nei confronti del proprio percorso di crescita, nei confronti di chi hanno davanti quando sono in classe o in didattica a distanza e nei confronti delle difficoltà della vita.

    Molto spesso il profitto scolastico dei figli porta a delle discussioni in famiglia. Purtroppo siamo ancora poco consapevoli che la scuola è una palestra di vita, l'ambiente lavorativo dove vengono allenate la comunicazione, la socializzazione, il metodo, l’organizzazione, la fiducia in se stessi, la flessibilità, la creatività, la perseveranza ma soprattutto la personale motivazione. Tutte qualità che saranno richieste ai nostri figli nel mondo del lavoro e che, se ben allenate, possono essere fonte di successo.

    Scrive così la Ginzburg:

    “Al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare un'importanza che è del tutto infondata. E questo non è se non rispetto per la piccola virtù’ del successo. Dovrebbe bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami: ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio. Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo la bandiera del malcontento costante, prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta un’offesa. Allora i nostri figli, tediati, si allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo insieme con loro, a vittime d’una ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro, quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni.

    In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo/a, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe essere chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d’essere continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime di ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi. […] E’ falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi, d’essere bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno. Il loro dovere di fronte a noi è puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti. Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di rimproverarli, di mostrarci offesi nell’orgoglio, frustrati d’una soddisfazione. […] Se il meglio del loro ingegno non hanno l’aria di volerlo spendere per ora in nulla, […] chissà, forse quello che a noi sembra ozio è in realtà fantasticheria e riflessione, che, domani, daranno frutti. […] Perché infinite sono le possibilità dello spirito. Ma non dobbiamo lasciarci prendere, noi, i genitori, dal panico dell’insuccesso. I nostri rimproveri debbono essere come raffiche di vento o di temporale: violenti, ma subito dimenticati; nulla che possa oscurare la natura dei nostri rapporti coi nostri figli, intorbidarne la limpidità e la pace. I nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha addolorati; siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati. Siamo anche là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti. Siamo per ridurre la scuola nei suoi umili ed angusti confini; nulla che possa ipotecare il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali forse è possibile sceglierne uno di cui giovarsi domani. Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato d’attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cosa è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita?”.

    A cura di Federica Comunello


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